F.a.D.
2006-03-22 17:40:14 UTC
Non so se qualcuno può avere interesse a leggere cosa diceva Rodolfo
Celletti nel 1964 riguardo la Callas. Interessante soprattutto la
parte critica sulla genesi e lo sviluppo della voce:
CALLAS, MARIA (nome d'arte di Maria Anna Cecilia Sofia Kalogeropoulos;
spesso apparsa sui cartelloni col doppio cognome Meneghini-Callas). -
Soprano statunitense di origine greca, naturalizzato italiano, nata a
New York il 4 dicembre 1923. Nel 1937 si trasferì dagli Stati Uniti
d'America in Grecia con la madre e, dopo alcune lezioni con M.
Trivella, fu affidata alla De Hidalgo, al Conservatorio di Atene. Nel
novembre 1938, a soli 15 anni, debuttò ad Atene nella Cavalleria ma,
pur producendosi successivamente in Tiefland di d'Albert, Tosca e
anche in operette, continuò a studiare. Nel 1945 fece ritorno negli
Stati Uniti. Qui fu sentita da Zenatello che la scritturò per l'Arena
di Verona, ove il 3 agosto 1947 si presentò nella Gioconda,
ottimamente accolta. Nell'estate 1948 trionfò in Turandot a Roma
(Terme di Caracalla). Nel 1949, alla Fenice di Venezia (cantava ivi
Valchiria) sostituì una collega indisposta nei Puritani, affrontando
per la prima volta il repertorio d'agilità; ma continuò per qualche
tempo a cantare il solo repertorio drammatico (tra l'altro, Parsifal
all'Opera di Roma). Nel 1949 sposò a Verona l'industriale G. B.
Meneghini dal quale si separò poi nel 1959. Nell'estate 1949 esordì al
Colon di Buenos Aires e il 12 aprile 1950 alla Scala, senza troppo
scalpore, in una ripresa dell'Aida; nell'ottobre prese parte,
all'Eliseo di Roma, ad una memorabile riesumazione del Turco in Italia
di Rossini, diretta da Gavazzeni. Da allora il suo repertorio cominciò
ad abbracciare gli stili vocali più disparati. Nella stagione 1951-52,
con un ingresso alla Scala veramente trionfale (Vespri Siciliani,
diretti da De Sabata, Norma, Ratto dal serraglio) e con Puritani
all'Opera di Roma, s'impose definitivamente come una delle cantanti
più eminenti apparse nel nostro secolo, rafforzando poi la sua fama
con la riesumazione dell'Armida di Rossini al Maggio Fiorentino del
1952 e con l'esordio al Covent Garden di Londra in Norma (8 novembre
1952). Al Maggio Fiorentino del 1953 fece epoca la sua interpretazione
della Medea di Cherubini, che riprese poi in vari teatri. Alla Scala
apparve in ogni stagione dal 1953 fino al 1957-58 (tra le sue recite
ivi di particolare rilievo gli spettacoli con regia di Visconti:
Vestale, Sonnambula e Traviata [1954-55], riesumazione dell'Anna
Bolena e Ifigenia in Tauride [1956-57]; ricordiamo inoltre la Lucia
diretta da Karajan, a cui fu tributata un'accoglienza delirante, la
riesumazione del Pirata [1957-58]). Il 29 ottobre 1956 debuttò al
Metropolitan con Norma (e il teatro registrò l'incasso record di oltre
75.000 dollari). All'Opera di Parigi esordì il 19 dicembre 1958 in una
serata memorabile (concerto operistico e II atto della Tosca). È
inoltre tornata al Covent Garden di Londra nel 1953, nel '57 e nel '59
(17 giugno, Medea). Nel 1957 è stata nominata Commendatore della
Repubblica Italiana. Dal 1959 ha molto diradato la sua attività
teatrale; tra le sue ultime apparizioni sulla scena si contano Norma
(1960) e Medea (1961) al Festival di Epidauro, Poliuto (1960) e Medea
(stagione 1961-62) alla Scala.
***********************************
La CALLAS, per il complesso delle sue caratteristiche vocali e di
repertorio, ha sovente indotto la critica ad un rapporto con le due
cantanti più rappresentative del primo romanticismo: la Pasta e la
Malibran. All'una la riallaccerebbero la singolare ampiezza del
fraseggio e la plastica nobiltà dell'atteggiamento scenico nelle parti
regali e sacerdotali; all'altra la varietà dell'accento, la prontezza
dell'intuizione e anche la possibilità di accostarsi felicemente al
genere giocoso. Ma il confronto è stato suggerito, a recensori
particolarmente edotti dello stile vocale ottocentesco (T. Celli, F.
d'Amico, E. Gara e poi vari altri), soprattutto da due elementi:
l'eccezionale estensione della gamma e la non meno eccezionale facoltà
di eseguire parti di pura agilità con una voce voluminosa, squillante
e di timbro scuro. Il parallelo è poi ribadito dalla presenza,
nell'organizzazione vocale della C., di manchevolezze a suo tempo
rimproverate alla Pasta e alla Malibran, in specie le disuguaglianze
di registro (difetto comune a quasi tutte le voci di grande
estensione, che molte altre celeberrime cantanti, dalla Pisaroni alla
Lind, non arrivarono a dissimulare). Nella C., ad ogni modo, le
disparità timbriche tra centri, zona di passaggio e settore acuto sono
evidenti; così come è più o meno palese, a seconda della tessitura,
l'opacità di certi suoni gravi o il fondo gutturale, e nemmeno privo
di asperità, del medium. Asperità e smagliature di vibrazioni
trapelano, a volte, anche negli acuti estremi (specie quando la C.
affronta parti d'agilità dopo opere dalla tessitura centralizzante) e
nei sopracuti, che comunque annoverano il sicuro possesso del mi.
Senonché, queste mende sono il più delle volte neutralizzate dalla
forza dell'azione interpretativa; quando addirittura la C. non se ne
avvale deliberatamente in senso drammatico. Così in varie scene della
Norma e, in maniera più tipica, nel Macbeth e nella Medea, certi suoni
acri e taglienti e certe inflessioni cupe e velate rendono più
essenziale il satanismo del personaggio. In pratica, quindi, si
potrebbe affermare che gli appunti che sogliono esser mossi sotto il
profilo vocale alla C. hanno un peso solo se riferiti al suono
valutato in senso fisico, ma perdono valore di fronte alla
considerazione che il vero traguardo da raggiungere è la
caratterizzazione del personaggio. Ciò posto, sarebbe arduo negare
alla C. facoltà abnormi e tali da fare probabilmente storia a sé. Per
la tecnica superlativa, la capacità di eseguire scale, volate,
gorgheggi, agilità d'ogni tipo sia con l'andamento brillante,
vigoroso, quasi aggressivo ch'era prerogativa di molti virtuosi fino a
Rossini, sia nel tono flebile e flautato, che successivamente
caratterizzerà i soprani "coloratura", la C. può essere anzitutto
classificata una vocalista d'eccezione. I suoi attacchi appaiono d'una
nettezza esemplare, i legati e i portamenti sono lineari; possiede
ampiezza di fiati, messa in voce, perfetta quadratura. In termini di
mero virtuosismo, un paragone con i soprani leggeri più in vista
dell'ultimo trentennio denuncerebbe, a suo svantaggio, soltanto la
minore velocità nell'esecuzione di certi acrobatismi: nondimeno il
confronto è reso problematico dal fatto che il temperamento della C. è
agli antipodi del fondamentale meccanicismo cui si impronta la
coloratura delle odierne cantanti d'agilità. Vale a dire che anche in
parti come quelle di Lucia, Amina e Elvira dei Puritani, il canto
della C. si sviluppa in un ambito espressivo più ampio di quello
delineatosi dopo la Lind e la Patti, e tende a gravitare sull'elemento
tragico, oppure a infondere in quei personaggi vigorosi slanci
affettivi. Ma, a questo punto, occorrerebbe stabilire se, a parte le
risorse coloristiche dipendenti dalla natura della voce e dalla
tecnica, esistano nella C. presupposti che la rendano più idonea a
sostenere un determinato repertorio anziché un altro. È questione
ardua a lumeggiare per la coesistenza di numerosi elementi
contrastanti. Restringendo, inizialmente, l'indagine ad un periodo che
partendo da Cherubini giunga fino a Verdi, non si può disconoscere
alla C. una sensibilità pressoché miracolosa nel cogliere e riprodurre
le più sottili differenze dei vari stili; e ciò non solamente nelle
arie, ma nel declamato, nel recitativo, nell'impronta del fraseggio,
nella graduazione dell'accento, nell'andamento dei tempi. Le sue
interpretazioni danno effettivamente l'idea d'un ritorno al clima
originario dell'opera sia per quanto concerne la soluzione dei
problemi tecnico-vocali, sia per quanto riguarda lo spirito del
personaggio (di qui i citati raffronti con la Pasta, la Malibran, e, a
proposito della Medea, con la Schröder-Devrient). Tuttavia, scendendo
ancor più in profondità, si potrebbe asserire che sul comune
denominatore d'una ricostruzione storica sempre abilissima, gioca in
modo alterno la sua maggiore o minore adattabilità alle varie
tessiture, in primo luogo, e quindi ai vari personaggi. Per cui, ferma
restando la sua eccellenza nelle parti tragiche in genere, la
perfezione sarebbe attinta in alcune soltanto di esse: là, cioé, dove
la C. abbia modo di fondere la propria intima tendenza ad un canto
nervoso, ossessivo, lampeggiante, con alcune tra le più seducenti
risorse della vocalista. Se ne dovrebbe dedurre che tra i suoi
personaggi la priorità spetta a Medea, ad Anna Bolena (lacerante il
grido invasato di rivolta: "I giudici! Ad Anna!" non meno della
dolcissima mezzavoce - anzi, eco d'una mezzavoce, come ha scritto Gara
- con cui la C. tratteggia il delirio della protagonista al finale
dell'opera snodando su una sottilissima lamina di suono le più ardue
fioriture e agilità: impresa semplicemente prodigiosa e, per fortuna,
conservata in un'incisione) e, nel ciclo verdiano, a Lady Macbeth.
Giunti però a questa conclusione, non va sottaciuto che a quasi tutte
le figure del vecchio repertorio la C. è riuscita ad applicare quella
che è in sostanza la formula vocale antica depurata da ogni
convenzione, alterazione o incrostazione non compatibile con il gusto
moderno. Di modo che il processo interpretativo, oltre a svolgersi con
una rigida osservanza del testo musicale, non denuncia le distrazioni
o i momenti di deliberato assenteismo che caratterizzavano, anche per
intenti di economia vocale, gli esecutori d'un secolo fa. Un
personaggio della C. è sempre attivo e operante, anche nei pezzi
d'insieme, anche nel recitativo apparentemente più trascurabile,
perfino nel semplice gesto (come, nel Trovatore, alla scena del
chiostro, le mani che s'accostano lentamente al viso di Manrico, per
un attimo creduto un fantasma). Qui subentra un altro aspetto
preponderante della personalità della C.: una perizia scenica spinta a
così alto grado da realizzare una perfetta fusione tra canto e gesto.
L'attrice è, come la cantante, sensibilissima al clima storico e al
gioco delle diversità stilistiche, che asseconda non soltanto con
truccature perfette e costumi appropriatissimi, ma con un apporto ben
più intimo alla configurazione del personaggio: grazie all'espressione
del volto o al modo in cui entra in scena, la C. è Norma, Lucia,
Elisabetta di Valois, Gioconda sin dal primo istante in cui si
presenta al pubblico, ripetendo così il fenomeno di istantanea
immedesimazione insito nelle apparizioni di Chaliapine. Se l'autorità
dell'attrice coadiuvi l'abilità vocale nel distrarre lo spettatore
dalle manchevolezze del timbro, è argomento che riveste una speciale
importanza ove si passi ad una valutazione della C. quale interprete
del repertorio della "giovane scuola" italiana, le cui tessiture
centralizzanti non potevano non risultare ostiche ad una voce
impostata per svettare negli spazi astrali del pentagramma e per di
più priva delle inflessioni sensuali dei soprani cosiddetti veristi.
In questo settore, si può forse giungere a conclusioni
complessivamente negative nei confronti della C., con l'avvertenza
però ch'esse si rivolgono soltanto alla qualità fisica del suono:
indubbi sono i meriti interpretativi e in particolare la giustizia
resa a Fedora e a Maddalena di Coigny, riprodotte sotto sembianze e
con atteggiamenti di autentiche grandi dame, dopo le innumerevoli
plateali deformazioni loro inflitte nell'ultimo cinquantennio (anche
Tosca subisce, nella raffigurazione della C., un processo analogo).
Soffermarsi sulle polemiche di natura extra-artistica suscitate da
taluni atteggiamenti della C., affini al "divismo", o almeno
apparentemente tali, esula dalle finalità della presente trattazione;
d'altronde, si tratta di avvenimenti di cui la stampa di tutto il
mondo s'è ampiamente occupata. È però opportuno porre in rilievo che
l'interesse che la C. ha saputo suscitare, come cantante e come donna,
non ha precedenti, Caruso a parte, nel nostro secolo, ed è valso a
reinserire il teatro d'opera nel vivo dell'esistenza dell'attuale
società. Molto attiva nel campo della fonografia, la C. ha riversato
nei dischi quasi tutte le sue interpretazioni più tipiche e la
perfezione ormai raggiunta dalle tecniche di incisione ha consentito
una riproduzione esauriente delle sue doti vocali e del suo stile. In
genere, anzi, l'incisione tende ad attenuare qualche asperità
timbrica. Questo è uno dei casi, però, in cui nemmeno il disco più
felice rende interamente la personalità dell'artista. Manca infatti il
sussidio della raffigurazione scenica, elemento determinante delle
interpretazioni della Callas.
(R. Celletti) - Tratto da "Le Grandi Voci" - Dizionario
Critico-Biografico dei Cantanti - Istituto per la collaborazione
Culturale - Roma 1964.
Celletti nel 1964 riguardo la Callas. Interessante soprattutto la
parte critica sulla genesi e lo sviluppo della voce:
CALLAS, MARIA (nome d'arte di Maria Anna Cecilia Sofia Kalogeropoulos;
spesso apparsa sui cartelloni col doppio cognome Meneghini-Callas). -
Soprano statunitense di origine greca, naturalizzato italiano, nata a
New York il 4 dicembre 1923. Nel 1937 si trasferì dagli Stati Uniti
d'America in Grecia con la madre e, dopo alcune lezioni con M.
Trivella, fu affidata alla De Hidalgo, al Conservatorio di Atene. Nel
novembre 1938, a soli 15 anni, debuttò ad Atene nella Cavalleria ma,
pur producendosi successivamente in Tiefland di d'Albert, Tosca e
anche in operette, continuò a studiare. Nel 1945 fece ritorno negli
Stati Uniti. Qui fu sentita da Zenatello che la scritturò per l'Arena
di Verona, ove il 3 agosto 1947 si presentò nella Gioconda,
ottimamente accolta. Nell'estate 1948 trionfò in Turandot a Roma
(Terme di Caracalla). Nel 1949, alla Fenice di Venezia (cantava ivi
Valchiria) sostituì una collega indisposta nei Puritani, affrontando
per la prima volta il repertorio d'agilità; ma continuò per qualche
tempo a cantare il solo repertorio drammatico (tra l'altro, Parsifal
all'Opera di Roma). Nel 1949 sposò a Verona l'industriale G. B.
Meneghini dal quale si separò poi nel 1959. Nell'estate 1949 esordì al
Colon di Buenos Aires e il 12 aprile 1950 alla Scala, senza troppo
scalpore, in una ripresa dell'Aida; nell'ottobre prese parte,
all'Eliseo di Roma, ad una memorabile riesumazione del Turco in Italia
di Rossini, diretta da Gavazzeni. Da allora il suo repertorio cominciò
ad abbracciare gli stili vocali più disparati. Nella stagione 1951-52,
con un ingresso alla Scala veramente trionfale (Vespri Siciliani,
diretti da De Sabata, Norma, Ratto dal serraglio) e con Puritani
all'Opera di Roma, s'impose definitivamente come una delle cantanti
più eminenti apparse nel nostro secolo, rafforzando poi la sua fama
con la riesumazione dell'Armida di Rossini al Maggio Fiorentino del
1952 e con l'esordio al Covent Garden di Londra in Norma (8 novembre
1952). Al Maggio Fiorentino del 1953 fece epoca la sua interpretazione
della Medea di Cherubini, che riprese poi in vari teatri. Alla Scala
apparve in ogni stagione dal 1953 fino al 1957-58 (tra le sue recite
ivi di particolare rilievo gli spettacoli con regia di Visconti:
Vestale, Sonnambula e Traviata [1954-55], riesumazione dell'Anna
Bolena e Ifigenia in Tauride [1956-57]; ricordiamo inoltre la Lucia
diretta da Karajan, a cui fu tributata un'accoglienza delirante, la
riesumazione del Pirata [1957-58]). Il 29 ottobre 1956 debuttò al
Metropolitan con Norma (e il teatro registrò l'incasso record di oltre
75.000 dollari). All'Opera di Parigi esordì il 19 dicembre 1958 in una
serata memorabile (concerto operistico e II atto della Tosca). È
inoltre tornata al Covent Garden di Londra nel 1953, nel '57 e nel '59
(17 giugno, Medea). Nel 1957 è stata nominata Commendatore della
Repubblica Italiana. Dal 1959 ha molto diradato la sua attività
teatrale; tra le sue ultime apparizioni sulla scena si contano Norma
(1960) e Medea (1961) al Festival di Epidauro, Poliuto (1960) e Medea
(stagione 1961-62) alla Scala.
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La CALLAS, per il complesso delle sue caratteristiche vocali e di
repertorio, ha sovente indotto la critica ad un rapporto con le due
cantanti più rappresentative del primo romanticismo: la Pasta e la
Malibran. All'una la riallaccerebbero la singolare ampiezza del
fraseggio e la plastica nobiltà dell'atteggiamento scenico nelle parti
regali e sacerdotali; all'altra la varietà dell'accento, la prontezza
dell'intuizione e anche la possibilità di accostarsi felicemente al
genere giocoso. Ma il confronto è stato suggerito, a recensori
particolarmente edotti dello stile vocale ottocentesco (T. Celli, F.
d'Amico, E. Gara e poi vari altri), soprattutto da due elementi:
l'eccezionale estensione della gamma e la non meno eccezionale facoltà
di eseguire parti di pura agilità con una voce voluminosa, squillante
e di timbro scuro. Il parallelo è poi ribadito dalla presenza,
nell'organizzazione vocale della C., di manchevolezze a suo tempo
rimproverate alla Pasta e alla Malibran, in specie le disuguaglianze
di registro (difetto comune a quasi tutte le voci di grande
estensione, che molte altre celeberrime cantanti, dalla Pisaroni alla
Lind, non arrivarono a dissimulare). Nella C., ad ogni modo, le
disparità timbriche tra centri, zona di passaggio e settore acuto sono
evidenti; così come è più o meno palese, a seconda della tessitura,
l'opacità di certi suoni gravi o il fondo gutturale, e nemmeno privo
di asperità, del medium. Asperità e smagliature di vibrazioni
trapelano, a volte, anche negli acuti estremi (specie quando la C.
affronta parti d'agilità dopo opere dalla tessitura centralizzante) e
nei sopracuti, che comunque annoverano il sicuro possesso del mi.
Senonché, queste mende sono il più delle volte neutralizzate dalla
forza dell'azione interpretativa; quando addirittura la C. non se ne
avvale deliberatamente in senso drammatico. Così in varie scene della
Norma e, in maniera più tipica, nel Macbeth e nella Medea, certi suoni
acri e taglienti e certe inflessioni cupe e velate rendono più
essenziale il satanismo del personaggio. In pratica, quindi, si
potrebbe affermare che gli appunti che sogliono esser mossi sotto il
profilo vocale alla C. hanno un peso solo se riferiti al suono
valutato in senso fisico, ma perdono valore di fronte alla
considerazione che il vero traguardo da raggiungere è la
caratterizzazione del personaggio. Ciò posto, sarebbe arduo negare
alla C. facoltà abnormi e tali da fare probabilmente storia a sé. Per
la tecnica superlativa, la capacità di eseguire scale, volate,
gorgheggi, agilità d'ogni tipo sia con l'andamento brillante,
vigoroso, quasi aggressivo ch'era prerogativa di molti virtuosi fino a
Rossini, sia nel tono flebile e flautato, che successivamente
caratterizzerà i soprani "coloratura", la C. può essere anzitutto
classificata una vocalista d'eccezione. I suoi attacchi appaiono d'una
nettezza esemplare, i legati e i portamenti sono lineari; possiede
ampiezza di fiati, messa in voce, perfetta quadratura. In termini di
mero virtuosismo, un paragone con i soprani leggeri più in vista
dell'ultimo trentennio denuncerebbe, a suo svantaggio, soltanto la
minore velocità nell'esecuzione di certi acrobatismi: nondimeno il
confronto è reso problematico dal fatto che il temperamento della C. è
agli antipodi del fondamentale meccanicismo cui si impronta la
coloratura delle odierne cantanti d'agilità. Vale a dire che anche in
parti come quelle di Lucia, Amina e Elvira dei Puritani, il canto
della C. si sviluppa in un ambito espressivo più ampio di quello
delineatosi dopo la Lind e la Patti, e tende a gravitare sull'elemento
tragico, oppure a infondere in quei personaggi vigorosi slanci
affettivi. Ma, a questo punto, occorrerebbe stabilire se, a parte le
risorse coloristiche dipendenti dalla natura della voce e dalla
tecnica, esistano nella C. presupposti che la rendano più idonea a
sostenere un determinato repertorio anziché un altro. È questione
ardua a lumeggiare per la coesistenza di numerosi elementi
contrastanti. Restringendo, inizialmente, l'indagine ad un periodo che
partendo da Cherubini giunga fino a Verdi, non si può disconoscere
alla C. una sensibilità pressoché miracolosa nel cogliere e riprodurre
le più sottili differenze dei vari stili; e ciò non solamente nelle
arie, ma nel declamato, nel recitativo, nell'impronta del fraseggio,
nella graduazione dell'accento, nell'andamento dei tempi. Le sue
interpretazioni danno effettivamente l'idea d'un ritorno al clima
originario dell'opera sia per quanto concerne la soluzione dei
problemi tecnico-vocali, sia per quanto riguarda lo spirito del
personaggio (di qui i citati raffronti con la Pasta, la Malibran, e, a
proposito della Medea, con la Schröder-Devrient). Tuttavia, scendendo
ancor più in profondità, si potrebbe asserire che sul comune
denominatore d'una ricostruzione storica sempre abilissima, gioca in
modo alterno la sua maggiore o minore adattabilità alle varie
tessiture, in primo luogo, e quindi ai vari personaggi. Per cui, ferma
restando la sua eccellenza nelle parti tragiche in genere, la
perfezione sarebbe attinta in alcune soltanto di esse: là, cioé, dove
la C. abbia modo di fondere la propria intima tendenza ad un canto
nervoso, ossessivo, lampeggiante, con alcune tra le più seducenti
risorse della vocalista. Se ne dovrebbe dedurre che tra i suoi
personaggi la priorità spetta a Medea, ad Anna Bolena (lacerante il
grido invasato di rivolta: "I giudici! Ad Anna!" non meno della
dolcissima mezzavoce - anzi, eco d'una mezzavoce, come ha scritto Gara
- con cui la C. tratteggia il delirio della protagonista al finale
dell'opera snodando su una sottilissima lamina di suono le più ardue
fioriture e agilità: impresa semplicemente prodigiosa e, per fortuna,
conservata in un'incisione) e, nel ciclo verdiano, a Lady Macbeth.
Giunti però a questa conclusione, non va sottaciuto che a quasi tutte
le figure del vecchio repertorio la C. è riuscita ad applicare quella
che è in sostanza la formula vocale antica depurata da ogni
convenzione, alterazione o incrostazione non compatibile con il gusto
moderno. Di modo che il processo interpretativo, oltre a svolgersi con
una rigida osservanza del testo musicale, non denuncia le distrazioni
o i momenti di deliberato assenteismo che caratterizzavano, anche per
intenti di economia vocale, gli esecutori d'un secolo fa. Un
personaggio della C. è sempre attivo e operante, anche nei pezzi
d'insieme, anche nel recitativo apparentemente più trascurabile,
perfino nel semplice gesto (come, nel Trovatore, alla scena del
chiostro, le mani che s'accostano lentamente al viso di Manrico, per
un attimo creduto un fantasma). Qui subentra un altro aspetto
preponderante della personalità della C.: una perizia scenica spinta a
così alto grado da realizzare una perfetta fusione tra canto e gesto.
L'attrice è, come la cantante, sensibilissima al clima storico e al
gioco delle diversità stilistiche, che asseconda non soltanto con
truccature perfette e costumi appropriatissimi, ma con un apporto ben
più intimo alla configurazione del personaggio: grazie all'espressione
del volto o al modo in cui entra in scena, la C. è Norma, Lucia,
Elisabetta di Valois, Gioconda sin dal primo istante in cui si
presenta al pubblico, ripetendo così il fenomeno di istantanea
immedesimazione insito nelle apparizioni di Chaliapine. Se l'autorità
dell'attrice coadiuvi l'abilità vocale nel distrarre lo spettatore
dalle manchevolezze del timbro, è argomento che riveste una speciale
importanza ove si passi ad una valutazione della C. quale interprete
del repertorio della "giovane scuola" italiana, le cui tessiture
centralizzanti non potevano non risultare ostiche ad una voce
impostata per svettare negli spazi astrali del pentagramma e per di
più priva delle inflessioni sensuali dei soprani cosiddetti veristi.
In questo settore, si può forse giungere a conclusioni
complessivamente negative nei confronti della C., con l'avvertenza
però ch'esse si rivolgono soltanto alla qualità fisica del suono:
indubbi sono i meriti interpretativi e in particolare la giustizia
resa a Fedora e a Maddalena di Coigny, riprodotte sotto sembianze e
con atteggiamenti di autentiche grandi dame, dopo le innumerevoli
plateali deformazioni loro inflitte nell'ultimo cinquantennio (anche
Tosca subisce, nella raffigurazione della C., un processo analogo).
Soffermarsi sulle polemiche di natura extra-artistica suscitate da
taluni atteggiamenti della C., affini al "divismo", o almeno
apparentemente tali, esula dalle finalità della presente trattazione;
d'altronde, si tratta di avvenimenti di cui la stampa di tutto il
mondo s'è ampiamente occupata. È però opportuno porre in rilievo che
l'interesse che la C. ha saputo suscitare, come cantante e come donna,
non ha precedenti, Caruso a parte, nel nostro secolo, ed è valso a
reinserire il teatro d'opera nel vivo dell'esistenza dell'attuale
società. Molto attiva nel campo della fonografia, la C. ha riversato
nei dischi quasi tutte le sue interpretazioni più tipiche e la
perfezione ormai raggiunta dalle tecniche di incisione ha consentito
una riproduzione esauriente delle sue doti vocali e del suo stile. In
genere, anzi, l'incisione tende ad attenuare qualche asperità
timbrica. Questo è uno dei casi, però, in cui nemmeno il disco più
felice rende interamente la personalità dell'artista. Manca infatti il
sussidio della raffigurazione scenica, elemento determinante delle
interpretazioni della Callas.
(R. Celletti) - Tratto da "Le Grandi Voci" - Dizionario
Critico-Biografico dei Cantanti - Istituto per la collaborazione
Culturale - Roma 1964.